23 Ott La Sistina bolognese: l’Oratorio di Santa Cecilia
La presenza dei portici a Bologna rende spesso difficile l’individuazione degli edifici religiosi e in particolare l’Oratorio di Santa Cecilia sarebbe oggi introvabile, se un’associazione culturale non fosse da anni impegnata nella sua promozione e valorizzazione.
La ragione di tale riservatezza si spiega con la sua originaria funzione. L’edificio a navata unica era una chiesa parrocchiale, posta alle spalle dell’abside di San Giacomo Maggiore, grande fondazione agostiniana del XIII secolo e chiesa palatina durante la signoria dei Bentivoglio, che avevano la loro dimora dove oggi sorge il Teatro Comunale. Nella chiesa di San Giacomo trovarono sepoltura alcuni membri della famiglia e in particolare una delle cappelle del tornacoro gotico fu riedificata dai Bentivoglio e terminata nel 1486 per essere il luogo della celebrazione della loro casata.
Proprio dietro a questa cappella si trova l’Oratorio di Santa Cecilia, al quale si ha accesso solo dalla Strada San Donato (oggi via Zamboni) che costeggia il fianco della chiesa principale. Come la cappella Bentivoglio, anch’esso fu fatto ricostruire dalla potente famiglia su una precedente fondazione, della quale mantenne la dedicazione.
I rifacimenti della struttura architettonica furono terminati nel 1483, ma la decorazione delle pareti iniziò solo nel 1505, a compimento di una ristrutturazione resasi necessaria dopo i terremoti che avevano colpito la città nei mesi precedenti. Gli affreschi furono affidati ai pittori di corte, paladini del gusto dell’ultimo quarto del Quattrocento: Francesco Raibolini detto il Francia, Lorenzo Costa e Amico Aspertini, tra tutti il più giovane e più aggiornato. Proprio Amico era recentemente rientrato da Roma, quando venne coinvolto nell’impresa. Non è dato sapere chi sia stato l’ideatore del progetto iconografico svolto in 10 scene, desunto dalla Passio della santa, che comprende anche gli episodi della conversione e del martirio del marito Valeriano e del cognato Tiburzio. È un dato di fatto che nell’impianto la decorazione dell’oratorio riprenda quello di una cappella già all’epoca ben più celebre, voluta dal papa Sisto IV nel Palazzo Apostolico Vaticano e decorata alle pareti entro il 1483 dai principali pittori fiorentini del momento e dai loro allievi: Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Pinturicchio, Domenico Ghirlandaio, Luca Signorelli, Cosimo Rosselli, Piero di Cosimo, Bartolomeo della Gatta.
Quindi ancor prima dell’intervento di Michelangelo Buonarroti, la Cappella Sistina era già un modello per prestigio e modernità. Tale doveva essere sembrata anche agli occhi di Aspertini, che probabilmente ebbe un ruolo nella progettazione dell’organizzazione degli affreschi di Santa Cecilia. In entrambi i casi le équipes di artisti furono attive contemporaneamente e si conformarono agli stessi criteri narrativi – dimensioni delle figure, rapporto con il paesaggio, scelta della gamma cromatica – per dare unitarietà alla narrazione dei cicli. Per quanto la decorazione bolognese non sia stata completata nella parte superiore, a causa della cacciata dei Bentivoglio da Bologna ad opera di papa Giulio II, e alcune parti affrescate siano state danneggiate dalle modifiche apportate nei secoli all’oratorio, è evidente una ripartizione che ripropone quella romana.
Si ha una finta cornice lapidea che inquadra le scene, separate da paraste decorate con candelabre di squisito gusto rinascimentale. Le storie sono sormontate da un alto cornicione nella cui fascia centrale sono scritti in lettere capitali i soggetti delle scene; mentre nella cappella Sistina le parole corrono su una sola riga, nell’oratorio bolognese si snodano su due, probabilmente perché gli episodi narrati erano meno noti ai fedeli e dovevano essere descritti più puntualmente affinché le immagini venissero comprese. Le finestre, poste nell’ordine superiore, in entrambi i luoghi sono essenziali per illuminare adeguatamente le scene dipinte.
Questo confronto con l’ambiente romano fu spinto oltre da Aspertini, che arricchì gli affreschi a lui riconducibili con numerose inusuali citazioni delle sculture e dei monumenti antichi visti a Roma, come il Colosseo o Castel Sant’Angelo. Inoltre utilizzando una struttura compositiva assai complessa, unì la tradizionale presenza di episodi correlati avvenuti in momenti diversi, dipinti sullo sfondo della scena principale, alla rappresentazione di parti salienti della storia, inseriti come ornamento ad oggetti sacri quali altari, sarcofagi, are. Con tale accorgimento l’artista sottolineò il significato cultuale di questi episodi, trasformandoli in parti di monumenti di un autorevole passato. In particolare nella scena della Sepoltura dei santi Valeriano e Tiburzio, i lati frontali di strutture di pietra fungono da moderni display: in basso a sinistra su un ampio parallelepipedo è dipinto in stile pompeiano il martirio di santa Cecilia e su quello più piccolo posato sopra – ad imitare un bassorilievo – la cattura della santa (oggi appena visibile). Così viene ribadita costantemente la diacronia della storia narrata, grazie al fatto che ogni episodio richiama continuamente quelli precedenti e quelli successivi, quasi che ciascuna scena offrisse un differente punto di vista sull’insieme della vita della santa, raffigurata qui nella narrazione principale mentre piange il marito e il cognato defunti. Terzo display è il fronte del sarcofago di Valeriano, su cui è rappresentato un bassorilievo con l’Ultima Cena, a sottolineare il valore del sacrificio del santo, comparato a quello di Cristo. Alcune delle figure dipinte nella scena sono tratte da antichi monumenti, per rendere più convincente l’ambientazione nel III secolo. Tra questi vi è il corpo senza vita di Tiburzio, disteso vicino alla sua testa mozzata, il cui cadaverico biancore lo fa ancor più assomigliare alla statua del Niobide della collezione Maffei di Roma, da cui è tratto: l’eternità della memoria del martire è evocata dalla durata esemplare dell’antico marmo.
L’attuale stato di conservazione degli affreschi bolognesi, che hanno perso quasi per interno le finiture a secco a tempera e i particolari in pastiglia dorata, non permette di apprezzarne pienamente l’originaria ricchezza formale. L’incompiutezza e la damnatio memoriae che colpì i suoi committenti contribuirono ad una sottovalutazione di questo capolavoro del primo Rinascimento dell’Italia settentrionale, creato da pittori protagonisti di una importante scena artistica, aggiornata non solo sugli esempi toscani, ma anche su quelli veneti e lombardi, capace comunque di dar vita ad un linguaggio originale e poetico.
Altre opere dei pittori attivi nell’Oratorio di Santa Cecilia possono essere ammirate alla Pinacoteca Nazionale e alle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna, nonché in numerose chiese della città.